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Accogliere minori stranieri non accompagnati a Cassano Valcuvia, un impegno che va oltre le cronache

Intervista a Camilla Galliani responsabile dell'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati della comunità

Comunità Cassano Valcuvia

«Faccio il lavoro che voglio fare e lo faccio con persone che a loro volta hanno scelto di farlo. I problemi ci sono e non li abbiamo mai nascosti sotto il tappeto perché portandoli fuori e confrontandosi credo che sia l’unico modo per trovare le soluzioni». Camilla Galliani, responsabile dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati della comunità sperimentale residenziale “Il Mappamondo” a Cassano Valcuvia, si è presa giustamente del tempo prima di parlare.
I fatti di cronaca che hanno coinvolto alcuni ragazzi – non tutti – ospiti della comunità di accoglienza non vanno sottovalutati, ma prima di esprimere giudizi o di invocare a drastiche soluzioni bisogna conoscere di più. Di questa struttura si sa poco, anche per tutelare i suoi ospiti, minori non accompagnati approdati sulle nostre coste su barconi o via terra, attraverso i Balcani, attraverso i paesi della ex Jugoslavia fino al confine di Trieste, in condizioni a dir poco disumane. Il rischio di un giudizio frettoloso basato sull’immediatezza del fatto di cronaca rischia dunque di travolgere tutto, compresi i buoni risultati ottenuti dalla comunità nel corso degli anni.

Dottoressa Galliani, quanti minori accoglie attualmente la comunità di Cassano Valcuvia, da quali paesi provengono e che età hanno?
«In tutto sono 46 minori stranieri non accompagnati, circa il 97% proviene dall’Egitto, il resto vengono dalla Tunisia e dall’Africa subsahariana e hanno un’età che va dai sedici ai diciotto anni».

In che condizioni arrivano e di quali sindromi soffrono?
«Arrivano da noi ragazzi che manifestano sintomi post traumatici da stress, per quanto hanno dovuto affrontare nel viaggio verso il nuovo mondo, e sono in carico alla neuropsichiatria. Ogni viaggio è diverso, ma quando arrivano da noi sono allo strenuo delle forze e al limite della sopportazione. Ricordo che a uno di loro, arrivato attraverso la rotta balcanica (via terra, ndr),  gli era stata assegnata una stanza con la vista sul bosco, essendo la nostra comunità circondata da boschi. Quella vista gli creava una tale angoscia da non farlo dormire e così gli abbiamo dato un’altra camera con la vista aperta sulla valle. Le cose sono andate meglio, ma per farlo uscire dalla comunità ci sono volute settimane».

Comunità Cassano Valcuvia

Voi siete la loro nuova famiglia. Che percorsi proponete a questi ragazzi per riconnetterli a una esistenza normale?
«Parte del nostro compito è far sì che loro possano riappropriarsi del loro essere adolescenti, tenendo conto del fatto che provengono da storie familiari e contesti culturali e che sono cresciuti con schemi diversi da quelli in cui puo’ crescere un ragazzo italiano. Poterli fare riappropriare di un tempo che è anche soltanto quello della crescita li aiuta poi ad essere degli adulti più sereni. Molti di loro mantengono i contatti con la famiglia di origine e anche noi prendiamo contatti con i loro familiari per costruire insieme il percorso di crescita del ragazzo. Altri invece la famiglia non ce l’hanno più, sono completamente soli e cercano di creare nuovi riferimenti all’interno della comunità. C’è poi un terzo intervento più pratico ma altrettanto importante per il loro futuro e riguarda la parte amministrativa e burocratica, come per esempio il disbrigo delle pratiche per il permesso di soggiorno e a costruire un percorso che possa aiutarli nel momento in cui raggiungono la maggiore età a rimanere in Italia all’interno di un progetto che dia loro una prospettiva futura. Sono tutte componenti essenziali per costruire una nuova esistenza».

Tre di loro sono stati protagonisti di alcuni fatti di cronaca all’esterno della comunità nei confronti di cittadini di Cassano Valcuvia, come affrontate queste situazioni?
«Indagare sulle origini della violenza è importante, ma deve essere ben chiaro che non è una giustificazione alla violenza, ma ci serve a prevenirla dove è possibile e a reindirizzare le persone verso il percorso migliore quando la violenza viene agita. La violenza non è mai una risposta adeguata e la circostanza che un ragazzo abbia conosciuto solo violenza come unico modo di comunicare a qualsiasi livello, da quello familiare a quello istituzionale, allora c’è un percorso da fare. I tre ragazzi problematici di cui parliamo nella loro vita hanno conosciuto solo la violenza per averla subita direttamente o indirettamente durante il viaggio migratorio che incide moltissimo».

Che reazione hanno in genere i ragazzi della comunità quando vengono ripresi sui loro comportamenti in contrasto con le regole del vivere civile?
«La prima azione è fargli prendere consapevolezza attraverso lunghe conversazioni che agire la violenza è sempre sbagliato. Il ragazzo spesso capisce di aver agito in modo sbagliato e chiede scusa prendendo un impegno affinché la violenza non venga ripetuta. Il nostro compito è anche spiegare le conseguenze che si possono avere nel medio e nel lungo termine. I conflitti non son mai banali anche quando riguardano, per fare un esempio, la richiesta di tenere la luce accesa o spenta nella camera contro la volontà del compagno di stanza. La risolviamo all’interno della comunità e la conseguenza può essere quella di una decurtazione di una parte della paghetta mensile. Esiste la punizione così come esiste il premio.  Noi crediamo molto nel rinforzo positivo: ad ogni azione positiva c’è una risposta altrettanto positiva e concreta».

Che cosa ne fanno della paghetta?
«Noi rispondiamo a tutti i loro bisogni basilari, a loro non manca nulla ma è importante che facciano un percorso per recuperare la loro adolescenza. Se penso a m quando ero adolescente, la maglietta che mi piaceva volevo comprarmela da sola. Quando un ragazzo appena arrivato, ricevendo la prima paghetta, corre a comprarsi una maglietta, io sono molto felice anche se è la maglietta più brutta del mondo, perché significa che il ragazzo si è riappropriato del suo spazio, del suo tempo e quindi della suo essere diciassettenne, ha capito il valore che ha. L’autonomia richiede responsabilità e consapevolezza, perché si impara il valore del denaro e delle scelte.  E poi ci sono quelli che mandano tutta la loro paghetta a casa perché c’è un debito di viaggio che deve essere saldato».

Come si svolge la loro giornata in comunità?
«L’idea è quella di vivere in una grande casa. I ragazzi sono quindi impegnati nelle attività del quotidiano. Chi sceglie di cucinare viene affiancato al personale adulto che si occupa della preparazione dei pasti, dopo aver frequentato il corso Haccp. Invece gli altri a turno e in autonomia si occupano della preparazione del refettorio, del lavaggio delle stoviglie, delle pulizie degli ambienti e della lavanderia, tranne per le lenzuola e gli asciugamani che vengono dati a una lavanderia industriale per garantire la migliore igiene possibile. Tutte le mattine vengono controllate le stanze e gli ambienti per verificare l’avvenuta pulizia. Mentre i lavoratori della comunità sono circa venti: si va dall’educatore fino a chi si occupa della gestione del refettorio».

I ragazzi della comunità vanno tutti a scuola?
«Ci sono ragazzi non scolarizzati che arrivano senza aver mai frequentato un giorno di scuola. Nella nostra scuola interna si insegna  l’L2 , cioè l’apprendimento di una lingua che non è la propria lingua di origine, con due insegnanti qualificate e poi ci sono specifici educatori che invece si occupano dell’apprendimento di altre competenze, come  l’educatore che si occupa di formazione e lavoro per quei ragazzi che parlano già un buon italiano e quindi possono passare a un livello successivo. I ragazzi che hanno disturbi dell’apprendimento o fanno fatica a stare in classe, proprio perché non abituati, sono seguiti da un’educatrice che si occupa dei laboratori espressivi. Il vero problema è la barriera linguistica da cui dipende la certificazione del disturbo. Abbiamo scelto di non avere nel gruppo di lavoro persone  di madre lingua per evitare di creare un canale esclusivo con un unico operatore rispetto agli altri. Lo sforzo di apprendimento deve essere reciproco. Il ragazzo deve sforzarsi di parlare in italiano e dall’altra parte credo che ormai nella comunità tutti gli educatori conoscano quattro parole di arabo, quanto basta per far sentire i ragazzi in un ambiente accogliente. Abbiamo comunque a disposizione interpreti e mediatori culturali h24 in convenzione con una associazione che si occupa di questo aspetto a seconda delle nostre esigenze. Oggi è l’arabo, ma solo un anno fa avevamo in comunità minori pakistani e bengalesi. Se avessimo avuto un mediatore arabo all’interno della comunità, i ragazzi avrebbero parlato con il muro. La strutturazione è funzionale all’accoglienza».

E con il culto religioso come vi regolate?
«Nella nostra scuola interna abbiamo strutturato le lezioni del venerdì con un orario che permetta la preghiera al mattino. Chi invece frequenta le scuole esterne va a scuola normalmente e quella non è un’assenza giustificata. Ospitiamo per lo più musulmani e anche ragazzi cristiani-copti che frequentano la chiesa di Saronno dove c’è una comunità religiosa di riferimento. Inoltre la nostra comunità è ospitata in un luogo religioso, l’Eremo del carmelo, dove i riferimenti cristiani sono tanti. Appesi alle pareti del refettorio dove i ragazzi mangiano tutti i giorni ci sono quadri con immagini sacre e abbiamo una chiesa interna è nella disposizione del parroco che la usa ogni volta che vuole. I ragazzi lo sanno e c’è grande rispetto».

Una volta usciti dalla comunità, i ragazzi tornano a trovarvi?
«Certo, proprio in questi giorni è stato qui un ragazzo che dopo un anno di accoglienza con noi è andato a vivere nell’hinterland milanese. È venuto a trovarci per il disbrigo della pratica riguardante il permesso di soggiorno e con sé aveva un sacchetto di dolci “Brutti e buoni” Dolce Varese e Biscotti e l’ha conseganto  al responsabile della logistica e del magazzino della comunità, una persona che aveva lavorato con lui in cucina per tutto il tempo dell’accoglienza.  A volte i ragazzi in tirocinio passano a contratti definitivi e pertanto, una volta maggiorenni, rimangono sul territorio. Mentre altri si ricongiungono alle comunità di origine a Milano, accade spesso che la rete di connazionali si attiva per la presa in carico. È comunque sempre emozionante avere buone notizie da loro anche quando la scelta del percorso non è quella che avevamo immaginato. Un giorno tre ragazzi egiziani sono usciti dalla comunità per andare a scuola, ma al termine della giornata non sono rientrati e nemmeno nei tre giorni successivi. Noi abbiamo attivato fin da subito la procedura di emergenza, vivendo ore di grande ansia e apprensione, fino a quando è arrivata una videochiamata da Bristol, in Inghilterra. Erano loro che ci comunicavano che erano arivati da un aprente che li aspettava. Evidentemente il loro viaggio non era finito».

Tensioni a Cassano Valcuvia attorno alla comunità per minori

Pubblicato il 29 Giugno 2023
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