“Anche le rondini ci dicono che il clima è cambiato”
Intervista a Milo Manica, presidente del gruppo insubrico di ornitologia. Da tempo l'associazione studia il cambiamento climatico e i rischi legati alla alla perdita di biodiversità

Anche le migrazioni dei volatili possono rivelare molto del nostro tempo. Questo perché clima, antropizzazione, ecosistemi e biodiversità sono fortemente interconnessi tra loro. Si può osservare il cambiamento climatico attraverso il volo e le abitudini degli uccelli? E che cosa sta succedendo sul nostro territorio? Lo abbiamo chiesto a Milo Manica, presidente del gruppo insubrico di ornitologia, l’associazione varesina che si occupa di ricerca ornitologica in provincia di Varese con ricerche a vari livelli in merito alla distribuzione e all’andamento delle popolazioni dei diversi uccelli sul territorio. Oltre alla ricerca “pura”, questa realtà è attiva anche nella divulgazione con articoli di giornale, pubblicazioni scientifiche e divulgative, corsi di ornitologia per coloro che sono interessati a questo mondo e molto altro. (foto in alto di Federica Purgato)
Manica, ha notato cambiamenti nella presenza, nell’habitat o nel comportamento degli uccelli per ragioni legate al cambiamento climatico?
«Domanda molto difficile, nel senso che osservare dei cambiamenti su una questione così ampia e diluita nel tempo come il cambiamento climatico, non ci dà un riscontro immediato. O meglio, per alcune cose sì, per altre no. Faccio un esempio: la migrazione. Si sa infatti che le rondini da vent’anni a questa parte, grazie ad alcuni studi che lo dimostrano, arrivano sempre prima e questo è legato al cambiamento climatico: dal momento che la temperatura si alza la primavera arriva prima e le rondini si muovono prima di conseguenza. Un’altra evidenza è quella di uccelli che svernavano alle nostre latitudini e che potevamo vedere a gennaio o febbraio, perché scendevano dal Nord Europa arrivando anche sotto le Alpi per trovare condizioni un po’ più favorevoli: da qualche anno a questa parte hanno continuato a diminuire nei numeri, ciò vuol dire che non migrano più, ma rimangono nella nella parte Centro-Settentrionale dell’Europa. Però su altre questioni invece è un po’ più difficile trovare un riscontro immediato».
Quali misure ritiene fondamentali per garantire la conservazione della biodiversità nel contesto dei cambiamenti climatici?
«Contrastare i cambiamenti climatici è una scommessa importante. Dobbiamo uscire dalla mentalità del “Oggi faccio questa azione, domani vedo subito l’effetto”. Le sfide ambientali, e in particolare quelle legate al cambiamento climatico, richiedono uno sguardo più ampio, una prospettiva di lungo periodo. Su questo punto, va detto, l’intera comunità scientifica è ormai concorde: è necessario puntare con decisione all’azzeramento delle emissioni di CO2, e se possibile, alla sua rimozione dall’atmosfera. Tuttavia, ciò che si sta facendo a livello globale è ancora troppo poco e si sta attuando troppo lentamente rispetto a quanto sarebbe auspicabile, soprattutto in termini di strategie politiche e accordi internazionali. Accanto a queste grandi direttrici, esistono anche azioni concrete e significative che possono essere intraprese a scala più locale. Una delle misure più promosse e discusse è il ripristino degli ecosistemi, noto anche come Restoration Ecology. Attualmente, secondo l’ONU, siamo nel Decennio del Ripristino degli ecosistemi, e proprio di recente è stata approvata una legge europea in materia, la Nature Restoration Law, che stabilisce obiettivi chiari e strumenti per raggiungerli. Uno degli obiettivi principali previsti dalle politiche europee è quello di arrivare ad avere almeno il 30% della superficie europea tutelata come area protetta. Al momento, ci attestiamo intorno al 20%. Si tratta di un passo che può e deve essere intrapreso anche a livello nazionale, attraverso il riconoscimento di nuovi parchi, l’ampliamento della rete Natura 2000, e in generale il rafforzamento delle aree ecologicamente sensibili. In aggiunta, la Nature Restoration Law prevede il ripristino del 20% degli ecosistemi degradati entro il 2030. Ma esistono anche azioni più semplici e immediate, a portata delle amministrazioni locali o delle comunità: ad esempio, interventi di ripristino ambientale su piccola scala, come la gestione delle aree verdi pubbliche con pratiche meno invasive. Un caso concreto è la riduzione dello sfalcio dell’erba in alcune zone urbane, mantenendo l’erba alta dove possibile. Questo tipo di misura, che può apparire minima o addirittura banale, in realtà può avere un impatto significativo sulla biodiversità urbana e sulla resilienza degli ecosistemi locali».
“Da Varese raccontiamo il clima che cambia. In futuro? Dovremo imparare a rimanere in equilibrio”
Il caso del cigno nero a Porto Ceresio: perché è così importante evitare l’introduzione di nuove specie non autoctone nei nostri territori?
«Ci sono una serie di ragioni per cui l’introduzione di specie esotiche in un ambiente che non è il loro dovrebbe essere evitata. Le principali sono le seguenti: innanzitutto, introdurre un animale in un ecosistema diverso da quello di origine comporta un’incertezza significativa: non sappiamo né come reagirà l’animale stesso, né come reagirà l’ambiente che lo accoglie. Sotto questo profilo, è evidente che l’introduzione può rappresentare un rischio sia per il benessere dell’ecosistema sia per quello dell’individuo, cioè della specie introdotta. Anche solo per questi motivi, l’introduzione dovrebbe essere evitata. In secondo luogo, c’è il rischio concreto di trasmissione di malattie. Questo è un fenomeno ben documentato in numerosi casi: basta pensare, ad esempio, al gambero rosso della Louisiana, che ha introdotto la peste del gambero, una patologia che ha colpito duramente il gambero autoctono. Inoltre, si possono creare situazioni di competizione ecologica. Alcune specie esotiche si adattano molto bene al nuovo ambiente per una serie di ragioni e diventano estremamente competitive rispetto alle specie autoctone. In questi casi, finiscono per soppiantarle, rappresentando una vera e propria minaccia per la biodiversità. Se osserviamo l’elenco delle principali cause di perdita della biodiversità, l’introduzione di specie esotiche invasive figura tra i primi posti, al pari della distruzione degli habitat o dell’inquinamento. A questo proposito, dico spesso che se cominciassimo a parlare di “inquinamento biologico”, forse riusciremmo a comprendere meglio la gravità di queste situazioni: introdurre una specie esotica in un ambiente che non è il suo equivale, in effetti, a inquinare biologicamente quell’ecosistema».
Quali sono le aree della provincia di Varese che pensa siano da tutelare e valorizzare maggiormente?
«In provincia di Varese abbiamo tre parchi regionali: il Parco Lombardo della Valle del Ticino, il Parco Campo dei Fiori e il Parco della Pineta di Appiano Gentile e Tradate. Si tratta di tre aree molto importanti dal punto di vista naturalistico e ambientale. Oltre a questi, ci sono diverse aree protette che fanno parte della Rete Natura 2000, che sono più di una ventina. La Rete Natura 2000 è la rete ecologica europea, la più estesa e significativa al mondo, in quanto copre l’intero continente. Al suo interno sono comprese le Zone Speciali di Conservazione (ZSC) e le Zone di Protezione Speciale (ZPS), pensate in particolare per la tutela degli uccelli nidificanti o migratori. Per fare qualche esempio, sul Lago Maggiore troviamo la ZPS “Canneti del Lago Maggiore”, individuata come tale per la sua funzione ecologica fondamentale. Un altro esempio è la Palude Brabbia, che è sia una riserva naturale sia una zona ZPS. Negli ultimi anni, per semplificare, si può osservare che le specie di uccelli più minacciate sono quelle legate agli ambienti aperti, come le zone agricole. Al contrario, le specie legate alle foreste e ai boschi stanno complessivamente meglio, alcune addirittura in ripresa. Invece, le specie associate ai campi coltivati, ai prati e ad altri ambienti agricoli sono in forte declino, sia a livello nazionale che europeo. Per questo motivo, proteggere questi ambienti aperti potrebbe essere oggi particolarmente importante.
“Per raccontare il cambiamento climatico servono parole concrete”
Come vede l’evoluzione del ruolo delle associazioni ambientaliste nei prossimi anni, soprattutto in relazione alle politiche climatiche?
«Le associazioni ambientaliste possono rappresentare un importante stimolo per la politica. Possono svolgere il ruolo di osservatori privilegiati, in quanto generalmente conoscono bene il territorio e le sue specificità, e sono spesso in grado di fornire indicazioni utili anche a livello gestionale. Sarebbe auspicabile che nella pianificazione territoriale, quindi nella progettazione di infrastrutture urbanistiche, nella gestione del suolo, nella scelta dei tipi di coltivazione, nei piani cave o in altri strumenti di pianificazione territoriale, fosse previsto un confronto strutturato con le associazioni ambientaliste. Queste realtà, infatti, vivono il territorio quotidianamente e conoscono a fondo le sue fragilità, oltre a poter suggerire modalità di intervento meno impattanti e più sostenibili. Questa, a mio avviso, rappresenta una sfida importante. L’altro aspetto cruciale è il coordinamento tra le varie associazioni: sarebbe fondamentale che migliorassero sotto questo profilo, riuscendo ad agire in modo coeso. Nonostante la varietà di sigle, simboli e bandiere, lo scopo è comune e condiviso. La nostra associazione, per esempio, si occupa in particolare di avifauna e, in relazione alla crisi climatica, è focalizzata sulla conservazione della natura dal punto di vista della perdita di biodiversità. Le due crisi, quella climatica e quella della biodiversità, sono strettamente collegate e non possono essere affrontate separatamente».
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