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La passione e l’amore per la cultura fanno germogliare l’Hortus

Angelo Bonfanti otto anni fa, scovando il terreno per i piccoli appezzamenti da coltivare nell’ambito del giardino appartenente a Villa Baumgartner, ha dato vita a un'esperienza di successo

brezzo di bedero

Ci ripensi, Angelo – ti chiamo semplicemente così, se  me lo permetti, omettendo Bonfanti per quello che verrà poi -, alla stranezza del nostro incontro lì in Bocciofila, seduti fuori, a parlare tra noi, come amici d’antica data, anche se ci conoscevamo, è vero, ma poco, mai argomenti approfonditi o discorsi di lunga gittata, qualche saluto, qualche parola semplice di cortesia e poi via,  arrivederci, alla prossima, che non si sapeva quale fosse.

Eravamo lì, seduti, senza nessuno intorno, la temperatura mite a farci da damigella, abbiamo deciso di abbandonare le convenzioni del lei, siamo passati al tu e, seppure ci conoscevamo poco ci siamo ritrovati amici d’antica data, è apparso, invisibile ai nostri occhi, ma percepibile distintamente, quello strano fluido che talvolta unisce le persone senza che loro neppure se ne accorgano.

L’atmosfera era un po’ fatata, era piacevole sentirti raccontare con una passione, che trasudava da ogni tua espressione, di quella associazione Hortus che avevi contribuito a creare circa otto anni or sono, scovando il terreno per i piccoli appezzamenti da coltivare nell’ambito del giardino appartenente alla Villa Baumgartner, in modo da affiancare la cultura musicale e letteraria di un edificio saturo di una storia recente, ma non per questo meno suggestiva e affascinante, a una cultura di certo molto più prosaica, ma non per questo non degna di attenzioni e di rispetto.

È stato un successo – è addirittura pleonastico riconoscertelo – fa parte di un’idea brillante, resa concreta dall’impegno e dalla fede profonda che caratterizza coloro che scelgono di privilegiare la tenacia nel perseguire un progetto alle parole vacue, nelle quali spesso di disperdono gli uomini, allorché non sanno resistere alle sirene dell’apparenza; costituisce, ormai, una delle eccellenze di Brezzo di Bedero, piccolo centro che dovrebbe anelare ad annoverarne molte altre.

Abbiamo continuato a parlare, a confrontare esperienze ignote l’uno all’altro: il tempo scorreva veloce, ma con dolcezza, quasi timoroso d’interferire nel nostro conversare. Se non fosse stato giorno avrebbe potuto essere come nella “Notte di Lisbona” di Enrico Maria Remarque, nella quale le verità di un’intera esistenza poterono essere svelate tramite il colloquio fitto, fitto di due esseri umani che non avevamo nulla in comune, solo l’orrore di una guerra che, avendo attraversato la loro esistenza ed essendo purtroppo ancora incombente, li aveva incredibilmente uniti.

Ogni cosa aveva un senso, anche lo spaziare al di là del motivo che ci aveva portato ad incontrarci, dei valori comuni che ci univano e che ci uniscono, scoperti quasi per caso; ci conoscevamo poco, prima, è vero, ma ci parlavamo come amici di vecchia data e dovevamo infine lasciarci, perché il tempo protestava la sua dimensione. Ci siamo salutati come amici di vecchia data, ma volevo chiederti una cosa che non riuscii quel giorno a domandarti, ma che avevo intuito di poter formulare, poiché sicuramente avresti avuto la risposta: «Ma accadrà davvero che anche i sordi udiranno i sussurri?»

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Pubblicato il 13 Giugno 2016
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