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Caso Lidia Macchi, solo “congetture“ contro Binda, via al risarcimento

Le motivazioni della sentenza in Cassazione che scagionano definitivamente il cinquantenne di Brebbia, per tre anni e mezzo ingiustamente incarcerato

Generica 2020

Non era solo questione di puntiglio giuridico l’attesa per le motivazioni della Cassazione legate all’assoluzione in Appello, confermata dal giudice di legittimità per Stefano Binda, fino a due mesi addietro ancora tecnicamente imputato per l’omicidio di Lidia Macchi avvenuto oramai 34 anni fa.

A prescindere dal contenuto delle motivazioni –  interessante per le parti e che contiene il ragionamento giuridico della Suprema corte – , il giorno del deposito delle motivazioni rappresenta di fatto un conto alla rovescia per la richiesta risarcitoria che gli avvocati della difesa, Patrizia Esposito e Sergio Martelli presenteranno per l’ingiusta detenzione di tre anni e mezzo subita da Stefano Binda, finito in cella nel gennaio 2016 e uscito solo a fine luglio 2019 quando i giudici d’Appello di Milano ribaltarono la sentenza di Varese, aprendogli le porte della cella del carcere di Busto Arsizio dove era detenuto.

Ora sarà possibile per gli avvocati istruire la pratica risarcitoria e i tempi prevedono un periodo massimo di due anni a partire proprio dalla data di deposito delle motivazioni.

Sul piano dei contenuti, di fatto il dispositivo non è stato ancora trasmesso alle parti ma da quanto si apprende giudici d’appello hanno verificato la «certezza fattuale di ogni singolo elemento addotto dall’accusa», per arrivare «con logicità e congruenza di argomenti alla conclusione che i dati indiziari non hanno alcun grado di certezza in fatto e nessuna valenza intrinseca, perché frutto di presunzioni e congetture».

Questo scrive la Cassazione nella motivazione della sentenza con cui lo scorso 27 gennaio ha confermato l’assoluzione in via definitiva di Stefano Binda per l’omicidio di Lidia Macchi La sentenza d’appello prese atto di un alibi di Binda per la sera in cui Lidia è morta. E ha ritenuto non dimostrato l’assioma per il quale la poesia `in morte di un’amica´, spedita il giorno del funerale e considerata dall’accusa la prova regina, fosse stata scritta dall’assassino, tantomeno che l’avesse scritta Binda.

Nella sentenza con cui ha confermato quella decisione, la prima sezione penale della Cassazione, replicando ai motivi di ricorso della procura generale, ricorda che «le tracce biologiche sulla busta con cui fu spedita ai familiari di Lidia Macchi la poesia `in morte di un’amica´ non appartengano all’imputato, il che non è per nulla marginale». Così come non sono sue nemmeno le tracce rinvenute sulla salma dopo la riesumazione: e questo, sottolinea il collegio, «è un risultato di prove a favore» di Binda. Per la Corte gli elementi indiziari sono stati «valutati con rigore logico e correttezza di metodo» e le conclusioni sono motivate con «adeguatezza e completezza».

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it
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Pubblicato il 18 Marzo 2021
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