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Le pietre, bianchi quaderni per gli antichi uomini dell’Ossola

“Vi hanno inciso storie, non dipinte ma graffiate pietra contro pietra oppure con le prime punte di ferro”

Questa settimana “La scuola ai tempi del coronavirus”, l’ormai consueto appuntamento con il materiale didattico proposto dallo scrittore e docente Paolo Crosa Lenz, parla delle pietre dell’Ossola e del legame che le unisce alle antiche popolazioni che hanno abitato le nostre montagne.

La scuola al tempo del coronavirus / 9

Sassi che raccontano storie

Questa settimana vi parlo di sassi, pietre che l’evoluzione geologica ha creato e offerto come bianchi quaderni agli uomini. E gli uomini vi hanno inciso storie, non dipinte ma graffiate pietra contro pietra oppure con prime punte di ferro. Cosa abbiano voluto dire, l’archeologia non lo sa dire con certezza.

Qualcosa hanno pur voluto dire, come può capitare a noi nel nostro incerto vivere di oggi. Mi piace pensare che abbiano solo voluto chiedere cose buone: salute, cibo, speranza. Ma sono solo pensieri. Tralascio le pitture rupestri della “Balma dei cervi” di Cordo perché fin troppo note a tutti. La prossima settimana vi parlerò di alberi e di foreste: anche loro raccontano storie.

Se ritenete utile, potete diffondere i materiali nella rete della “scuola buona” alla quale apparteniamo tutti con orgoglio.

Paolo Crosa Lenz

Come si chiamavano le donne e gli uomini che abitavano le nostra terre duemila anni fa?

Ce lo dicono i sassi.

Sappiamo che i popoli preromani della nostra terra (Leponti sulle Alpi e Insubri sui laghi) parlavano una lingua celtica molto antica e che scrivevano utilizzando il cosiddetto “alfabeto di Lugano” (particolari lettere etrusche usate a nord del Po). Numerose iscrizioni su pietra, parte in grafia leponzia e parte latina, sono state rinvenute a monte di Stresa: quattro stele funerarie a Brisino e cinque a Levo riportano un’onomastica gallica. Sappiamo così come si chiamavano gli antichi abitatori alle pendici del Mottarone: Luto Artonis, Exobna Diuconis, Kiketu Retalos, Askonetiu Pianu, Tunal Koimila, Namu Esopnio, Atequa Asouini, Surica Ciposis, Veca Atbiti. Oggi i reperti archeologici della zona del Mottarone (Cusio e Vergante) sono visibili al Museo Archeologico di Arona e in quello di Mergozzo. A Ornavasso sono esposte le ceramiche con altri nomi: Vasekia, Atios, Latumaros, Sapsuta.

Come i primi uomini all’alba della Storia “parlavano” con Dio? Ce lo dicono i sassi.

Un fenomeno di culto antichissimo e misterioso è quello delle coppelle. Le “coppelle”, ascrivibili al più generale fenomeno culturale delle incisioni rupestri, sono piccole vaschette emisferiche ricavate probabilmente per primitiva incisione e successiva lisciatura; a volte sono collegate tra loro da canaletti. Sono diffuse su tutto l’arco alpino e l’abitudine dei montanari di incidere segni sulle rocce viene fatta risalire al Neolitico, ma si protrasse fino al Novecento. Gli studiosi assegnano le incisioni a coppelle alle manifestazioni di culto dell’uomo antico e, in particolare, al culto dei fulmini quale manifestazione della divinità. In questi anni, l’archeologia contemporanea è diventata sempre più prudente rispetto ad ipotesi interpretative del fenomeno. In anni lontani, ogni buco su una roccia veniva considerato preistorico nella vulgata di montagna. Nel Medioevo, in Valgrande, i confini tra gli alpi pacificati venivano marcati “cum crucem et pilettam”.

Segnalo quattro luoghi, ma le coppelle sono dappertutto, perché offrono l’occasione per belle passeggiate e facili escursioni.

L’alpe Prà (Valgrande)

L’alpe Prà è uno splendido belvedere sulla bassa Valgrande e sul blu del Lago Maggiore che appare lontano tra linee convergenti di costoni boscati. E’ una gita facile e breve, adatta a tutti; la mulattiera che sale da Cicogna, lastricata a rizzada , è un bell’esempio di accurata costruzione di una strada alpina, realizzata con l’uso di sassi trovanti e consolidata da muri di sostegno e canaletti di scolo delle acque piovane. Sotto i ruderi, vi è un “masso cupellato” che ci parla di un’antica presenza umana sulla montagna. In posizione dominante sulla valle e perfettamente orientato verso il sorgere del sole, la tavola di pietra reca una trentina di coppelle collegate tra loro da canaletti.

I Sess d’la lesna (Val Vigezzo)

Nei pascoli della Colma di Craveggia è stato scoperto, negli anni ’70 del Novecento, un sistema di massi cupellati che hanno indotto lo storico rosminiano Tullio Bertamini a ipotizzarne un’origine cultuale legata ai fulmini ed esposta in un famoso articolo della rivista “Oscellana”, intitolato proprio “I sassi del fulmine”.

La pietra dul merler dell’alpe Cama (Valle Antrona)

La “pietra dul merler” è una lastra di laugera, la pietra oliare dalla quale per secoli i montanari antronesi ricavarono vasellame da fuoco, che si trova in posizione aperta e panoramica sulla valle poco sotto l’alpe Cama superiore a circa 1850 m. Il nome “merler” deriva dal vocabolo latino “merellus” (pedina) ed indica il gioco del filetto, quello solitamente rappresentato sul retro della tavola per il gioco della dama. Ad esso si avvicina il tris, già giocato in epoca romana mentre il filetto si diffuse in Europa con le Crociate, che è dato da un cerchio o un quadrato diviso da otto raggi interni. Sulla pietra sono incisi nove filetti e cinque trie. Sulla pietra di Cama sono inoltre fittamente incisi molti segni con 82 valori simbolico: coppelle, affilatoi, dischi solari, quadrati magici, cruciformi e stelliformi.

La cappella di San Grato (Vergante)

La più diffusa concentrazione di coppelle nel Vergante si trova alla Motta Rossa, un modesto colle che si alza sulla piana del torrente Erno tra Brovello e Belgirate. Il nome locale del colle è ber , la montagna per eccellenza dei Celti. Qui, lungo la mulattiera per Calogna, sono visibili 274 coppelle su una grande roccia nei pressi di una cappella che, tra gli altri santi, raffigura S. Grato, protettore dalle tempeste e dai fulmini. Nella zona, un’altra decina di massi recano coppelle; quasi ad indicare un antichissimo percorso devozionale alle divinità delle alture, poi confermato nel Medioevo con l’edificazione del tempietto romanico di S. Cristina.

Come gli uomini antichi “rendevano onore” a un Dio? Ce lo dicono i sassi

Un luogo affascinante e misterioso è il “Muro del Diavolo” della tradizione popolare antigoriana. Si trova nel territorio di Crodo, ad Arvenolo, un alpeggio a 1000 m, una balconata a prati precipite sulla piana di Verampio, sulla sinistra orografica della valle (una stradina sterrata chiusa sale da Crego). E’ una costruzione megalitica di sostegno ad una inusuale forma di terrazzamento; un muraglione gigantesco sostiene un terrazzo orientato secondo i punti cardinali. Ha una forma ad L e una lunghezza complessiva di 60 m. Blocchi ciclopici furono staccati dalle rocce del pendio sovrastante con la tecnica dei cunei di legno e sovrapposti con un immane lavoro. Narra una leggenda che il muro sia la spalletta di un ponte costruito dal Diavolo attraverso la valle per distruggere l’abitato di Cravegna, ma l’intervento di San Martino sconfisse Satana e salvò il villaggio. Gli archeologi ipotizzano invece un suo uso come luogo di culto, suffragati in questo dal rinvenimento nel terreno antistante di reperti che testimoniano una presenza umana risalente all’epoca della romanizzazione. Forse, la “prima chiesa” dell’Ossola.

Dove gli uomini antichi in Ossola rendevano onore agli dei? Ce lo dicono i sassi.

Sui dolci pendii assolati di Montecrestese (a Castelluccio, a Croppole), all’imbocco delle valli Antigorio e Isorno (come anche in Valle Antrona) sono stati scoperti allineamenti e circoli di monoliti e strutture in pietra a secco a falsa volta. Questi ritrovamenti sono ascrivibili alla cultura megalitica, l’uso di grandi pietre per costruzioni funerarie e di culto. Il fatto nuovo e interessante per gli studiosi è l’abbinamento di questi menhir con camere a falsa volta inserite in muri di terrazzamento della montagna. Queste camere sono caratterizzate da una copertura ottenuta con file di pietre sporgenti le une sulle altre e una lastra centrale di chiusura. La tecnica della “falsa volta” è di diffusione mediterranea e risale al III e II millennio a.C. Una tecnica antica che in alcune regioni, come ad esempio in Liguria e in Istria, è continuata fino ai nostri giorni e di cui i ritrovamenti ossolani documenterebbero la diffusione nell’area alpina.

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Pubblicato il 01 Giugno 2020
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