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La fine di un “goon”

"Goon" o "enforcer", termini non ufficiali ma che nell’hockey, soprattutto quello di qualche anno un significato lo avevano eccome. Questa è la storia, senza lieto fine, di uno di loro.

rubrica hockey alla balaustra

(d. f.) Con questo articolo intitolato “La fine di un goon” prende il via oggi una nuova rubrica curata dalla redazione sportiva di V2 Media/ VareseNews, dedicata all’hockey su ghiaccio. O meglio, alla cultura hockeyistica, grazie alla penna e alla passione di Marco Giannatiempo cui sono affidati i testi e grazie alla competenza e all’interesse per questo sport che si registra da decenni sul nostro territorio. “Alla balaustra” avrà cadenza quindicinale: l’appuntamento è per il primo e terzo (ed eventualmente quinto) lunedì pomeriggio di ogni mese.

Derek Boogaard ha la faccia sorridente da classico bravo ragazzo americano, mentre si incammina verso la sua scuola percorrendo la strada bianca che taglia a metà due immense praterie, siamo a Saskatchewan in Canada. La sua andatura è goffa, pesa 96 chilogrammi ed è alto 193 centimetri, porta il 46 di scarpe ma è un ragazzo di soli 15 anni. Cammina con le spalle ricurve verso l’interno, lo fa per essere più simile in termini di altezza ai suoi compagni, ma rendere meno evidente la sua ombra non serve. Infatti viene regolarmente preso in giro, verbalmente da alcuni e con pugni – su quelle spalle enormi – da altri. Lui subisce, continua a sorridere, tanto quei colpi neppure li sente.

C’è però una cosa che lo fa imbestialire: quando qualcuno se la prende con uno dei suoi amici, ecco in quel caso si arrabbia. Capita un pomeriggio di primavera: solito drappello di quei quattro ragazzotti, ma stavolta il bersaglio non è lui ma il suo amico che viene sgambettato. Il giovane cade e si taglia il mento: perde sangue, loro ridono e lo insultano. Derek interviene, non sa picchiare ma ha pugni talmente enormi e pensanti che quando raggiungono il bersaglio per i quattro si mette male: uno scappa, due rimangono a terra ma tornano a casa con le loro gambe, uno finisce in ospedale in condizioni pure piuttosto serie.

È lo sceriffo della contea che riporta a casa Derek, che ha sempre quel sorriso e non parla. L’agente dice che per questa volta «va bene così, ci penserà lui a sistemare tutto», ma chiede ai genitori di fare qualcosa, perché a tutelare la legge ci pensa già lui.
Papà e mamma conoscono la situazione del figlio e decidono che devono intervenire: meglio uno sport di squadra, dove magari Derek può sfogarsi ma anche fare amicizia. Scelgono l’hockey su ghiaccio, che e poi è l’unico sport che si pratica in quel luogo. Lui all’inizio non ci si appassiona, anzi lo detesta e smette di andarci. I genitori non lo forzano, ma una sera il padre gli porta a casa un poster di Wendel Clark, giocatore professionista della NHL anche lui nativo del Saskatchewan e capitano dei Toronto Maple Leafs. Derek lo osserva e decide di tornare a giocare, vuole diventare come lui: un fortissimo giocatore di NHL capitano di una squadra, e continuare la tradizione della sua piccola città di provincia.

Torna sul ghiaccio, si allena con passione, ma palesa una serie di limiti piuttosto marcati nel pattinaggio e nel controllo del disco. La grinta no, quella non manca come anche il suo fisico che è incredibilmente prestante. Sul ghiaccio, in quel tipo di hockey uno così ti serve sempre, e quindi continua a giocare da titolare. Comprende il suo ruolo ed accumula a fine stagione moltissimi minuti di penalità ed una manciata di assist: le mani arrivano prima dei pattini ma l’importante è continuare a giocare.

La svolta nella sua carriera arriva con la maglia dei Melfort Mustangs: dopo un diverbio sul ghiaccio Derek si lancia letteralmente nella panchina avversaria colpendo tutti i giocatori che gli vengono a tiro e solo la schiacciante superiorità numerica degli avversari riesce a frenare la furia del giocatore, poi espulso dal ghiaccio. Si cambia: poco dopo uno scout dei Regina Pats sale in tribuna dal padre e veste il suo classico sorriso. I Pats sono una squadra che milita nella Western Hockey League, l’uomo parla prima con il padre di Bogaard, poi con lui e infine lo ingaggia.

Per loro deve fare quello che gli ha appena visto fare: menare le mani. Nessun problema per lui, visto che ha stazza e determinazione, e poi il ruolo di enforcer gli piace: andata.
Il suo ruolo lo prende sul serio, pure troppo, visto che in un’occasione colpisce in maniera così dura un giocatore da generargli una complicazione tanto grave da fermagli la carriera per sempre. Peccato che quel giocatore fosse un suo compagno di squadra nella partitella post allenamento…

La fama di Boogaard cresce, sbarca in AHL, dove finisce di formarsi fisicamente ma qui c’è gente che picchia almeno quanto lui: colpi duri ed infortuni iniziano a pesare sulla sua condizione fisica, e proprio in questo periodo inizia di tanto in tanto a fare uso di antidolorifici per continuare a giocare. L’ultimo anno, prima dell’esordio in NHL, lo gioca con gli Houston Aeros collezionando in 56 partite 259 minuti di penalità. Quasi ogni partita finisce in rissa, ne esce quasi sempre vincitore, ma a sua volta subisce moltissimi colpi, forse troppi, soprattutto al volto.

Ma bisogna resistere, ed infatti arriva la tanto attesa chiamata in NHL e nel 2005 anche l’esordio nel campionato di hockey più competitivo del pianeta con la maglia dei Minnesota Wild. A loro, manco a dirlo, serve uno che aumenti la ruvidità della squadra, e lui quel ruolo lo ha nel sangue. Il suo fisico però è molto provato: due interventi alla schiena ed un numero ormai incalcolabile di microfratture costringono il giocatore ad assumere un numero altissimo di farmaci, 11 diversi quelli registrati “ufficialmente”, più una serie di altri che il giocatore si procura per vie traverse. «Trenta pillole al giorno» dice il fratello Aaron, dosi che spingono il team a obbligare Boogaard a farsi assistere per dipendenza da farmaci presso un centro di riabilitazione nel sud della California, e la cosa sembra funzionare. Poi nella sua testa qualcosa s’inceppa: vuoti di memoria, capogiri, ma pensa sia tutto normale.

Nel 2010 passa ai New York Rangers, mettendo a tabellino anche qualche punto nelle prime partite, ma diventa il mito locale quando fracassa il naso di Steve MacIntyre, che però in quella rissa colpisce duro, ancora una volta causando a Derek un principio di commozione celebrale, l’ennesima. Qualche mese dopo è un durissimo è uno scontro con Matt Carkner a causare il suo allontanamento dalle piste, altro colpo alla tesa e stop forzato.
Questa situazione genera nel giocatore una depressione cronica, che fa sprofondare nel baratro l’hockeysta: Boogaard ora soffre anche di vuoti di memoria molto frequenti a causa dei colpi subiti. Dopo qualche mese, riprova a tornare in pista, pattina per qualche metro ma crolla sul ghiaccio e la società lo costringe a tornare in clinica.
Vuoti di memoria e marcata depressione, ancora, misti ad altre patologie che gli fanno sparire anche quel sorriso che lo aveva accompagnato per tanti anni.

È la fine della carriera sportiva di Boogaard, e il suo poster nella cameretta di qualche ragazzino della zona sarà presto sostituito con quello di un nuovo giocatore. Il cuore di Derek smetterà di battere il 13 maggio 2011, per un’overdose di alcool e ossicodone, farmaco appartenente alla classe degli oppioidi. A seguito del decesso la sua famiglia decide di donare il suo cervello allo Sports Legacy Institute della Boston University Medical School. Qualche tempo dopo, al termine di uno studio, la dottoressa Ann McKee confermerà che il giocatore ha effettivamente sofferto di una pesante condizione cerebrale degenerativa dell’encefalopatia traumatica cronica.

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Pubblicato il 15 Gennaio 2024
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