Giancarlo Sangregorio, lo scultore che parlava con le culture del mondo
Un incontro al Consolato Italiano di Lugano ha celebrato il centenario dell’artista di Sesto Calende, riscoprendo la sua visione universale dell’arte come ponte tra culture
Martedì 21 ottobre, il Consolato Italiano di Lugano ha ospitato l’incontro “Giancarlo Sangregorio e il fascino delle arti lontane”, un approfondimento dedicato alla figura e all’opera dello scultore di Sesto Calende nel centenario della sua nascita.
L’appuntamento, fortemente voluto dal Console Uberto Vanni d’Archirafi e moderato da Mauro Spignesi, caporedattore del Corriere del Ticino, ha riunito attorno al tavolo Paolo Campione, direttore del MUSEC – Museo delle Culture di Lugano e docente di antropologia, la ricercatrice e curatrice d’arte Nora Segreto, la storica dell’arte Lorella Giudici, responsabile dell’Archivio Sangregorio, e Francesca Marcellini, presidente della Fondazione Sangregorio Giancarlo di Sesto Calende.
Nel corso del dialogo è emersa la figura di un artista animato da una curiosità inesauribile e da uno spirito d’avventura che lo portò a confrontarsi con materiali diversi – legno, pietra, vetro – e a guardare oltre i confini geografici e culturali dell’arte occidentale.
L’arte come ponte tra culture
«Sangregorio era una persona molto curiosa», ha ricordato Mauro Spignesi, sottolineando come l’artista avesse compreso che “l’arte e la cultura sono ponti tra mondi diversi” e che “l’arte non ha confini”.
Paolo Campione ha delineato il legame storico e antropologico tra Sangregorio e le arti lontane, ricordando come, già dalla fine dell’Ottocento, gli artisti europei avessero trovato nell’arte primitiva, etnica e orientale una sorgente di rinnovamento e autenticità.
«In quelle forme e in quei colori – ha spiegato – artisti come Ernst e Picasso scoprirono una novità vitale, capace di dialogare con il mondo interiore. L’arte diventava così un viaggio verso l’origine, una ricerca di autenticità e di energia primigenia».

Fascinazione e dialogo
Nora Segreto ha approfondito il tema della fascinazione di Sangregorio per le arti lontane, sottolineando come il suo rapporto con esse non fosse mai una semplice questione di stile, ma un vero dialogo spirituale con l’alterità.
«Sangregorio – ha spiegato – non cercava di rompere con il passato, ma di instaurare un dialogo. La sua non era una ricerca nostalgica, bensì la scoperta di una scintilla di vita. Ogni oggetto della sua collezione era un interlocutore, un frammento di una grande scultura collettiva».
Nella mostra attuale al MUSEC, la curatrice ha scelto un allestimento essenziale, costruito attorno al dialogo tra due maschere cavat e una tavola dell’artista, a rappresentare il cuore di questa conversazione tra culture e linguaggi.
La materia e la luce
Nel suo intervento, Lorella Giudici ha ricordato come per Sangregorio la scultura fosse «uno strumento per parlare della vita». Dalla giovinezza trascorsa in Val Vigezzo durante lo sfollamento nacque il suo legame con la natura e con la materia: pietra e legno diventano protagonisti di un confronto drammatico e vitale, alla ricerca di equilibrio. Con l’introduzione del vetro, l’artista avviò un dialogo nuovo con la luce, capace di attraversare la materia e renderla trasparente. «Nei suoi scritti – ha ricordato Giudici – Sangregorio scriveva: “desidero la mia luce lombarda”, una dichiarazione poetica che riassume la sua visione di un’arte profondamente radicata nel territorio ma aperta al mondo».
Nell’ultima fase della sua vita, l’artista cercò sempre più la leggerezza della materia, disegnando sulle rocce e scalando montagne, in un ritorno all’essenza e alla natura come luogo dell’anima.
Un anno di iniziative diffuse
A concludere l’incontro, Francesca Marcellini, presidente della Fondazione Sangregorio Giancarlo, ha tracciato il percorso delle celebrazioni del centenario, un programma diffuso tra i luoghi che hanno segnato la vita e il lavoro dell’artista. L’incontro di Lugano ne ha rappresentato il culmine simbolico: una testimonianza di una ricerca artistica senza confini e di un’eredità che continua a parlare al presente.









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