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“Upshot”, il dolore del popolo palestinese raccontato a Laveno Mombello

Intervista a Maria Nadotti, giornalista e scrittrice che domenica 18 maggio sarà al Festival della Meraviglia per introdurre il mediometraggio girato dalla regista palestinese Maha Haj

upshot

Upshot, il mediometraggio che racconta le conseguenze della guerra dopo la fine dei combattimenti, arriva a Laveno Mombello in occasione del Festival della Meraviglia.

Girato dalla regista Maha Haj, Upshot mostra ciò che avviene dopo che la guerra finisce: quando le bombe tacciono, le telecamere se ne vanno e quello che resta è solo il dolore di chi ha perso tutto. Ambientato in un luogo che potrebbe trovarsi ovunque e in un futuro imprecisato, il mediometraggio accompagna i gesti quotidiani di una coppia di anziani immersi nella bellezza della natura dopo che il peggio è già avvenuto. Una scelta rivoluzionaria, con la quale la regista vuole raccontare il dolore della popolazione della Palestina occupata e invitare lo spettatore a riflettere sulle proprie responsabilità.

Upshot verrà proiettato sabato 17 maggio alle 11:00 (per gli studenti) e domenica 18 maggio alle 12:30 (aperto a tutti) nella palestra del Liceo V. Sereni, in via 24 maggio a Laveno Mombello. Domenica il film sarà commentato da Maria Nadotti, giornalista e scrittrice che tra il 2001 e il 2018 ha trascorso diversi periodi in Palestina. VareseNews ha intervistato Nadotti per conoscere la sua opinione sul valore di questa opera.

Upshot, «Una voce che equivale a un formidabile atto di speranza»

La distribuzione nelle sale di Upshot è stata descritta come un «simbolo di resistenza culturale». Perché è importante far conoscere le esperienze personali della popolazione palestinese colpita dalla guerra?

«Upshot è un mediometraggio di 34 minuti, pressoché impossibile da distribuire nelle sale cinematografiche nostrane. Il fatto di aver scelto questo formato per raccontare una storia di ordinario dolore che ha come scenario la Palestina occupata è, di per sé, un atto di resistenza culturale. Altro tratto distintivo di quest’opera è la sua ‘resistenza’ narrativa alle strettoie dei reportage televisivi e del cinema di documentazione. Invece di mostrare l’assoluto presente di un genocidio in corso, lavora su una temporalità diversa invitandoci a osservare ciò che accade da una sorta di futuro anteriore. Tempo della consapevolezza in antitesi a tempo dello stordimento. Durata in opposizione a istantaneità. Sviluppo versus accumulazione. Di conseguenza Upshot è un appello fortissimo, rivolto a noi spettatori e spettatrici, a considerare non solo il dolore degli altri, ma ciò che lo produce, in altre parole a interrogarci sulle nostre responsabilità e sulla possibilità di far sentire la nostra voce».

Un’opera di finzione come Upshot quali aspetti della tragedia palestinese riesce a mettere in luce, che la cronaca da sola non è in grado di trasmettere?

«Upshot (esito, conseguenze), scritto e diretto dalla regista Maha Haj, palestinese del ‘48, è un film quieto, silenzioso, dove non accade nulla e ci si può incantare davanti allo splendore dell’erba, al rigoglio degli olivi, ai gentili gesti quotidiani di una coppia di anziani coniugi. Siamo in un luogo che potrebbe essere ovunque, in un tempo imprecisato del futuro, dove tutto è a togliere, perché il peggio è già, e per sempre, avvenuto. Non c’è niente da mostrare o dimostrare: restano solo gli atti di immaginazione che permettono di sopravvivere, il racconto appunto. E il racconto è, per definizione, ciò che ci fa umani: la tensione a dire per essere ascoltati, un gesto relazionale».

Upshot racconta le conseguenze della guerra dopo la fine dei combattimenti. Le persone che hanno vissuto questo tipo di sofferenza potranno mai riuscire a superarlo?

«Uno dei tanti problemi che rendono così difficile orientarsi nella complessità del presente è l’uso svagato o meccanico delle parole e dei concetti di cui le parole dovrebbero essere limpide portatrici. Intorno alla cosiddetta questione palestinese si sono addensate nel corso di oltre un secolo una quantità di idee ricevute di cui facciamo fatica a liberarci. Upshot ci invita a pensare con cura e amorosità proprio al peso delle parole e alle conseguenze che le definizioni possono avere. Guerra o conflitto, per esempio? Quando iniziano e finiscono i combattimenti in un paese occupato, sottoposto a pulizia etnica, in via di annessione? I protagonisti di Upshot scelgono il silenzio, perché sanno che le parole possono essere usate per ferire e per mentire».

Alla luce delle violenze ancora in corso nella Striscia di Gaza, secondo lei potrà esserci speranza di un futuro per la popolazione palestinese?

«Nominare l’intollerabile, come fa Maha Haj in Upshot, è di per sé un atto di speranza. Nel suo ribadire la forza esplosiva dell’atto di nominazione c’è un’indicazione precisa su come abitare non passivamente e non storditamente il proprio tempo di vita. Non è là dove avviene la perdita che nascono le speranze? La giornalista palestinese Fatima Hassouna, uccisa a Gaza il 16 aprile scorso durante un’incursione aerea israeliana, ha lasciato scritto: “Se muoio, voglio una morte rumorosa. Non voglio essere solo una notizia dell’ultima ora o un numero in un gruppo, voglio una morte che il mondo senta, un impatto che duri nel tempo e un’immagine indelebile, che non possa essere sepolta dal tempo o dallo spazio”. Nella camera della morte in cui è stata trasformata Gaza, una voce come la sua equivale a un formidabile atto di speranza. Credo valga la pena di ascoltarla».

«Al Festival della Meraviglia sentiamo il bisogno “di fare rumore”»

Una voce, quella della regista Maha Haj, che il Festival della Meraviglia vuole aiutare a diffondere, per tenere viva l’attenzione su una situazione che – col proseguire dei combattimenti – diventa di giorno in giorno più tragica.

«Abbiamo sentito – commenta Frank Raes, l’ideatore del Festival della Meraviglia – il bisogno “di fare rumore”, come dice Maria, su qualcosa che è in corso mentre parliamo, la distruzione di un intero Paese e del suo popolo; una situazione orrenda che ha sempre meno a che fare con il conflitto israelo-palestinese, ma piuttosto con alcuni individui potenti che vogliono sbarazzarsi di qualcosa, un Paese e un popolo, che semplicemente non gli piace. Tuttavia, il cortometraggio non fa rumore, ma mostra, in un momento di pura meraviglia, come due persone fanno fronte alle sofferenze che vengono loro inflitte. È meraviglia, stupore, e anche indignazione».

Alessandro Guglielmi
alessandro.guglielmi@varesenews.it
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Pubblicato il 02 Maggio 2025
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