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Trenta mila euro per affittare un bosco come piazza di spaccio in provincia di Varese

Duemila auro la settimana lo stipendio per i capi, mille per i pusher che arrivano da Marocco via Ceuta e Melilla. Il sistema per garantire reddito a chi ospita indagati ai domiciliari

Generico 14 Jul 2025

Rifornimenti di droga gestiti direttamente dall’Olanda e addirittura, per la cocaina, dal Perù. Manovalanza che arriva via tir, su gomma, (il trasporto viene pagato profumatamente: 800 euro) attraverso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla così da garantire un turnover adeguato per la vendita di sostanze stupefacenti con un preciso prezzario al grammo (valori 2023): 60 euro per la coca, 20 per l’eroina e 5 per l’hascisc. Oltre, ovviamente, al costo per affittare la piazza di spaccio, il posto cioè dove i pusher piazzano la roba al dettaglio all’esercito di clienti che trasversalmente, senza distinzione di reddito o di età, di professione o di origine, cercano le sostanze per soddisfare la loro dipendenza.

Più di una volta abbiamo fatto riferimento al “sistema Marocco“ per la gestione dei boschi dello spaccio in provincia di Varese ma anche in altri contesti locali nella zona pedemontana lombarda. Ma ora, nelle pieghe dell’ultima indagine della guardia di Finanza di Varese  (nella foto) che ha portato all’emissione di nove ordinanze di custodia cautelare in carcere (e all’iscrizione nelle notizie di reato in capo a decine di altre persone, oltre alla segnalazione alla Prefettura degli assuntori), si entra ancora più nel dettaglio di questo “sistema”.

TRENTAMILA EURO PER UN BOSCO

Dunque per ragionare in termini economici classici, uno dei fattori della produzione di questo sistema criminale è la piazza di spaccio. Ha un costo: 30 mila euro per il controllo di un bosco. Si tratta di “quote“ di boschi che vendono cedute dai gestori dell’organizzazione, di fatto una sorta di affitto ad insaputa dei proprietari reali del fondo. I boschi vengono individuati tenendo conto della vicinanza con le vie d’accesso ma al contempo tenendo conto anche della conformazione del territorio allo scopo di rendere difficile l’ingresso di forze dell’ordine o avere il tempo di seppellire sia a droga, sia i soldi in involucri di vetro. Il bosco viene così affittato e vi lavorano le “squadre“ composte da un capo e da sottoposti che vengono regolarmente pagati dal gestore del bosco: 2 mila euro al primo, mille euro ai secondi, ogni settimana.

I video che ritraggono i pusher sfogliare come petali di una margherita mazzi da 20 e da 50 euro (e che servono spesso come strumenti di marketing per far partire connazionali dalle zone interne del Marocco per “lavorare“ in Italia) sono la testimonianza che il pagamento avviene cash, con gli stessi tagli coi quali si compra la roba al minuto. Il lavoro è 7 giorni su 7, H24: non si ferma mai. C’è anche l’ipotesi di una spesa supplementare: 4mila euro per il servizio di uno sciamano marocchino che agisca con un rito di purificazione del bosco. 

I soldi vengono poi ritirati dalle piazze di spaccio ogni due giorni da un corriere fidato marocchino con auto “pulita“, di solito vetture non rubate di assuntori incensurati che in cambio ricevono un rifornimento di droga quale pagamento. Contanti che vengono portati nelle zone del Milanese. Una stima – in grande difetto – identifica in un milione di euro il provento di 8 mesi di spaccio in una sola piazza.

LA GUERRA DELLE  SIM “BUONE”

Ma come avviene lo spaccio? Previo accordo telefonico. E sempre via telefono avvengono i contatti interni all’organizzazione. Per questo esistono due livelli di apparecchi utilizzati. Ci sono le sim che servono per le comunicazioni tecniche fra pusher e capi, per la logistica e le movimentazioni dei carichi. E ci sono le sim impiegate per lo spaccio al minuto. Mentre le prime possono variare, e i telefoni vengono anche buttati per evitare possibili problemi di natura penale in caso di indagini, quelle utilizzate per lo spaccio, cioè i numeri da chiamare o le utenze verso cui inviare messaggi su whatsapp per concordare la cessione di stupefacente, quelli sono “sacri“, non vanno mai cambiati perché sono l’unico punto di accesso con l’esterno, col mondo della domanda. Anzi, in alcuni casi è stato proprio il controllo delle sim a ingenerare lotte di potere fra gruppi distinti di pusher, per appropriarsene: venire in possesso di quei numeri telefonici è di vitale importanza per le organizzazioni.

Spetterà poi agli inquirenti – ed è qui la difficoltà estrema delle indagini – far combaciare le voci intercettate, o i messaggi inviati a distinti soggetti in carne ed ossa, dal momento che la responsabilità penale delle azioni è personale, secondo la legge. Dunque, con un vasto turnover di manodopera criminale arrivare a dare un nome e un cognome ai soggetti appare oltremodo difficile. Spesso, in altri contesti, la mano d’opera che si presta allo spaccio al minuto ha un costo molto inferiore ai 1000 euro la settimana, in alcuni processi è emerso che organizzazioni impiegano personale pagandolo 50 euro al giorno (quindi 350 a settimana).

I due livelli, cioè quello degli spacciatori e quelli degli organizzatori non comunicano mai tra loro: l’organizzazione, come è emerso dalle indagini, è consapevole che le forze dell’ordine riescono facilmente ad avere i numeri di telefono per lo spaccio al minuto (poiché viene solitamente fornito dagli assuntori una volta fermati), ma confidano proprio nel fatto che i due livelli, non comunicando, non permettono di far scoprire la rete e quindi l’intera filiera. A volte però qualcosa non funziona e le indagini arrivano a colpire il cuore di uno dei rami dell’organizzazione.

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it
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Pubblicato il 14 Luglio 2025
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