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L’intelligenza artificiale ci obbliga a ripensare chi siamo

Il professor Luca Mari ci accompagna in un viaggio oltre la tecnologia: cosa significa davvero intelligenza artificiale, perché è in gioco un salto culturale prima ancora che tecnico, e perché oggi più che mai scuola e pensiero critico sono essenziali per non smarrirsi

Nella narrazione pubblica si parla di intelligenza artificiale in modo sempre più diffuso e frequente. Spesso però se ne parla senza coglierne appieno il significato. In questa intervista, il professor Luca Mari, esperto di AI e professore all’università Liuc di Castellanza, ci accompagna in un ragionamento che va ben oltre la tecnica: dall’equivoco sul termine “intelligenza”, alla rivoluzione culturale in atto, fino al ruolo della scuola nel tempo dell’intelligenza artificiale.
Martedì 8 luglio (inizio ore 21) il professor Mari sarà ospite allo spazio libero di Materia ( via Confalonieri 5, Sant’alessandro Castronno) con un incontro (ingresso gratuito) dal titolo “L’intelligenza artificiale di Dostoevskij”.

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Professor Mari, come possiamo spiegare, in termini chiari e accessibili, che cos’è davvero l’intelligenza artificiale?
Una definizione precisa non è semplice, e del resto anche il nome stesso, “intelligenza artificiale”;  è stato scelto in un momento, negli anni Cinquanta del secolo scorso, in cui le idee non erano ancora ben definite. Col tempo, sono emerse moltissime definizioni, spesso molto generiche. Un genere di definizione abbastanza diffuso è: “l’intelligenza artificiale è il tentativo di far risolvere problemi complessi alle macchine”. Una definizione, però, che rischia di voler dire tutto e niente. Non a caso, qualcuno ha osservato con ironia: “Quando un problema viene risolto, non è più intelligenza artificiale».

Ci sono molti studiosi che nella definizione di AI ritengono inappropriata la parola “intelligenza”, preferendo la definizione macchine che apprendono. Secondo lei, oggi che cosa si intende davvero con intelligenza artificiale?
«Credo che, da un po’ di tempo, si continui a usare il termine “intelligenza artificiale” perché ha una forte risonanza comunicativa, ma ciò a cui effettivamente si fa riferimento è, quasi sempre, il machine learning. Oggi, infatti, il paradigma dominante è quello dell’apprendimento automatico, non più quello dei vecchi sistemi esperti, ormai in disuso. Si tratta, in sostanza, di ottenere comportamenti intelligenti da macchine che non sono programmate esplicitamente, ma addestrate su grandi quantità di dati».

In una sua lezione tenuta alla Liuc più di dieci anni fa  sul tema Industria 4.0 lei parlò di “salto antropologico”. Si parlava di rivoluzione combinatoria che comprendeva anche l’intelligenza artificiale. Che cosa intendeva? E quel salto antropologico si è compiuto definitivamente?
«Quella definizione la sentii necessaria. L’uso dell’intelligenza artificiale oggi rappresenta un cambiamento qualitativo, non solo quantitativo: qualcosa che incide sulla nostra identità, sul nostro modo di conoscere, comunicare, apprendere. In questo senso, più che una rivoluzione tecnologica, la definirei una rivoluzione culturale».

Come mai l’intelligenza artificiale è esplosa proprio adesso, con questa forza? È solo una questione di aumentata capacità computazionale delle macchine che prima non avevamo o c’è dell’altro?
«Ci sono molte ragioni. Una è sicuramente l’aumento della potenza di calcolo, fondamentale per addestrare modelli complessi. Ma la vera svolta è avvenuta con ChatGPT, che ha segnato un punto di discontinuità. Prima del 30 novembre 2022, l’AI era già presente, ma era un tema per addetti ai lavori. Dopo quella data, è diventata un’esperienza quotidiana per milioni di persone. Per la prima volta, un sistema conversazionale ha mostrato di saper generare contenuti coerenti, comprensibili, e di saper “dialogare”. Questo ha cambiato tutto.

Quindi il punto non è solo la generazione del testo, ma la capacità di conversare che è tipica degli umani
«Esattamente. ChatGPT è il primo sistema con cui si può interagire in modo naturale, affidabile, e non episodico. I motori di ricerca, ad esempio, sono sì basati su intelligenza artificiale, ma rispondono a una domanda per volta, senza memoria del contesto. ChatGPT, invece, tiene conto della conversazione, e questo ci è molto più vicino, psicologicamente».

Qualcuno sosteneva che le parole sono pietre. Spesso però nel dibattito pubblico si utilizzano termini come “algoritmo” e “rete neurale”, come sinonimi di intelligenza artificiale generativa. È corretto?
«C’è molta confusione. “Algoritmo” è un termine molto generico, applicabile anche a un semplice calcolo scritto a mano. Le reti neurali, invece, sono un modello ispirato al funzionamento del cervello umano. Ma dire che ChatGPT “è un algoritmo” o “è una rete neurale” è riduttivo. La sua potenza deriva dal metodo di training e dai dati con cui è stato addestrato. È come parlare di una persona descrivendone solo la struttura cerebrale: importante, sì, ma il comportamento di quella persona dipende soprattutto dalle esperienze che ha vissuto».

Quindi l’addestramento conta più dell’architettura?
«Esattamente. Tutti i sistemi di AI oggi – da GPT a Claude, Gemini, Copilot – si basano sulla stessa architettura di rete neurale: il Transformer, introdotto da Google nel 2017. Le differenze le fa il training: quantità e qualità dei dati, obiettivi educativi, criteri etici. È come dire che mandiamo a scuola due gemelli identici: uno riceve una buona educazione, l’altro no. Dopo vent’anni saranno molto diversi, pur avendo la stessa struttura “neurale».

Questa riflessione ha implicazioni anche sull’educazione scolastica e universitaria, immagino.
«Certamente. Oggi si comincia a intuire che il modo tradizionale di insegnare, ad esempio, assegnare compiti a casa da svolgere senza strumenti, ha sempre meno senso. Però, non abbiamo ancora definito con chiarezza quali siano le strategie giuste. Serve tempo per riflettere, perché il cambiamento è profondo. Ma se la scuola saprà accogliere questa sfida, potrà finalmente smettere di essere solo un luogo di formazione professionale, e tornare a essere una scuola di vita».

La scuola dovrebbe formare persone, non lavoratori. È un messaggio potente in altri tempi avremmo detto ideologico.
«Lo penso da tempo. E se prima poteva sembrare una posizione ideologica, oggi credo sia anche una posizione realistica. I contenuti tecnici diventano rapidamente obsoleti. Pensare che la scuola serva a preparare al lavoro rischia di essere non solo illusorio, ma anche svilente. La vera sfida è aiutare i giovani a diventare persone consapevoli, responsabili, capaci di vivere bene la propria vita, qualunque cosa facciano».

Una recente indagine nel settore della logistica condotta dal professor Fabrizio Dallari della Liuc è emerso che sono ancora poche le aziende che fanno uso dell’intelligenza artificiale. Secondo lei, in quali ambiti l’intelligenza artificiale sta avendo già un impatto reale?
«Paradossalmente, non sono sorpreso dal fatto che l’adozione sia ancora lenta, anche nelle aziende. L’AI è già un cambiamento profondo a livello culturale, ma non è ancora diventata una trasformazione diffusa nei processi industriali. Servono tempo, comprensione, sperimentazione. È un processo naturale. Non possiamo aspettarci che una rivoluzione così rapida venga assorbita in pochi mesi. E come dicevo anche anni fa a proposito dell’Industria 4.0: nessuno è obbligato a implementare ogni innovazione. Le tecnologie sono strumenti: servono solo se ci sono reali necessità».

In un contesto così mutevole, qual è, secondo lei, il compito dell’accademico?
«Credo che chi fa il nostro mestiere debba cercare di essere coscienza critica della società. Non seguire le mode, ma aiutare a distinguere ciò che è rilevante da ciò che è solo rumoroso. L’AI è affascinante e potente, ma va compresa, non semplicemente inseguita. E la scuola, l’università, dovrebbero essere il luogo dove questa comprensione viene coltivata».

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Pubblicato il 06 Luglio 2025
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