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In Ucraina con Andy Rocchelli, in Bolivia tra i detenuti in autogestione. La storia di Andrea Carrubba

Il fotoreporter tradatese racconta la sua carriera iniziata seguendo il post terremoto in Emilia Romagna e proseguita sui teatri di crisi principali degli ultimi anni, con una strana esperienza in un penitenziario di La Paz

andrea carrubba

Nel nuovo episodio del podcast “Chi l’avrebbe mai detto”, il fotoreporter di Tradate, Andrea Carrubba, racconta la sua carriera nei luoghi più difficili del mondo, dall’Ucraina in guerra a un carcere sulle Ande, spiegando come si può mantenere un’etica professionale anche documentando la sofferenza più estrema.

La regola: tornare a casa

«La prima regola è sempre tornare a casa» – spiega Carrubba – «perché non serve a niente fare bene il proprio lavoro se poi ci si lascia la pelle». Una frase che riassume con semplicità la complessità del mestiere di fotoreporter nei teatri di guerra e crisi umanitarie.

Carrubba ha seguito il conflitto in Ucraina sin dal 2014. Conosce bene la regione del Donbas, le sue tensioni politiche, le sue tragedie. Nel podcast ricorda la morte del collega Andy Rocchelli, ucciso in un attacco nel 2014, e la strage alla stazione di Kramatorsk nel 2022. Episodi che segnano nel profondo chi documenta, ma che non devono mai sovrastare il rispetto per le vite raccontate.

andrea carrubba

Il distacco etico: una fune tesa sull’abisso

Come si mantiene il distacco emotivo documentando la sofferenza umana? «Con rispetto infinito, tanta esperienza e una continua autocritica», dice Carrubba. È una linea sottile, quella che separa il coinvolgimento umano dall’invasione dello spazio altrui.

Fondamentale, per il fotoreporter, è la consapevolezza del proprio ruolo: «Io posso andare via, le persone che fotografo no». Un privilegio che comporta una grande responsabilità. Per questo, spiega, è spesso più importante decidere cosa non fare: quando non scattare una foto, quando fare un passo indietro, quando ascoltare senza intervenire.

Dalla guerra a un carcere in Bolivia

Non solo conflitti. Carrubba racconta anche una delle sue esperienze più singolari: un reportage all’interno di un carcere autogestito in Bolivia, ad alta quota sulle Ande. Un luogo corrotto dove i detenuti vivevano in condizioni estreme, alcuni gestivano laboratori per la raffinazione della cocaina. Un microcosmo di illegalità e sopravvivenza, dove anche qui il rispetto per chi si fotografa è la prima regola.

L’insidia del cinismo

Il rischio più grande? «Diventare cinici» – confessa Carrubba – soprattutto quando si lavora per testate importanti e ci si sente “corteggiati”. L’ego può gonfiarsi e far perdere lucidità. La cronaca veloce, poi, costringe spesso ad accantonare l’approfondimento per inseguire la notizia. «Ti ritrovi sballottato come in un flipper», dice.

Eppure, anche in quei momenti, Carrubba cerca di restare saldo: «raccontare sì, ma senza mai dimenticare che chi ho davanti non è un soggetto da prima pagina, ma una persona con un dolore vero».

Una lezione di giornalismo

L’intervista si trasforma così in una lezione di giornalismo umano e profondo. Un mestiere che chiede lucidità, empatia e un continuo esercizio di equilibrio tra vicinanza e rispetto. «Camminare in punta di piedi», come lo definisce lui stesso. Perché la vera etica sta tutta lì, nel sapere raccontare senza disturbare.

Pubblicato il 27 Novembre 2025
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