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Gli occhi in terapia intensiva

Il racconto di Sveva, infermiera in neurorianimazione, oggi dedicata ai malati di Covid-19

Generico 2018

Ieri ho assistito l’anestesista all’intubazione di un paziente che è arrivato da noi a coronaria (ormai chiamo così la nostra terapia intensiva).

Non è la prima volta che assisto a questa procedura, l’avrò vista un milione di volte, ma oggi è diverso. Oggi non si intuba prima di un intervento, di una procedura di routine, di un esame diagnostico. Oggi si intuba perché il coronavirus ha tolto il respiro ad una persona.

“Tranquillo, adesso la facciamo dormire un po’…”

E proprio in quegli attimi, poco prima che i farmaci della sedazione facciano effetto, e la coscienza lasci spazio all’oblio, che la vedi la paura negli occhi di un uomo. Il respiro in quegli istanti si fa ancora più affannato, in quegli istanti in cui gli ultimi pensieri ordinati scivolano via dalla coscienza, lo vedi che passa tutta la vita: chi sono, chi amano, cosa hanno fatto, cosa vorrebbero fare quando, se, si sveglieranno.

Poi il respiro si fa meno profondo, il curaro fa il suo dovere, e rallenta fino a fermarsi, e anche il viso si distende.
Non è facile assistere a tutto questo.

Non è facile quando arrivano già intubati, lo è ancora meno quando sono lucidi.
“Tranquillo, adesso la facciamo dormire un po’…”

Ma non sai nemmeno tu quanto quel sonno durerà. Speri il meno possibile, speri di restituirli al più presto alle loro famiglie.

Non è facile assistere a tutto questo, ogni giorno. Non è facile essere l’ultima persona che vedranno prima di abbandonarsi all’oblio.

Tu, che non sai nulla di loro, della loro storia, delle loro piccole e grandi battaglie, dei loro sogni, dei loro amori, dei loro rimpianti. È una responsabilità enorme. Tu che hai solo 5 minuti, il tempo di guardarli negli occhi, da dietro quell’involucro troppo spesso, e di stringergli una mano con la tua, coperta da 3 paia di guanti, e sussurrargli, oltre il rumore della cpap, del fiato corto e dei pensieri affannati, che andrà tutto bene.

Mentre mi reco al lavoro, vedo ancora troppa gente in giro per le strade.

La prossima volta in quel letto potrei esserci io, potreste esserci voi, vostro nonno, un vostro amico, la persona a cui più tenete al mondo.

Quindi, vi prego, vi supplico ancora una volta e finché avrò fiato: STATE A CASA.

Sveva Luraschi,  infermiera in neurorianimazione all’ospedale di Circolo di Varese

Pubblicato il 15 Marzo 2020
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