Fast Fashion: gli abiti che ci costano troppo (anche se non sembra)
Un viaggio interattivo tra moda, ambiente e diritti umani alla palestra del Liceo Sereni in occasione del Festival della Meraviglia

Domenica 18 maggio, la palestra del Liceo Sereni di Laveno Mombello si è trasformata in una passerella della coscienza. Non quella patinata delle sfilate di moda, ma un percorso interattivo e intenso attraverso gli effetti nascosti del fast fashion: quell’industria dell’abbigliamento che ci promette stile a basso costo, ma che nasconde un altissimo prezzo umano e ambientale.
A condurre il pubblico in questo viaggio sono stati gli studenti e le studentesse delle classi del liceo, accompagnati dalle parole dell’attivista Matteo Ward e dalle immagini della docuserie a lui dedicata. Ogni tappa – dal Bangladesh all’Indonesia, dal Cile al Veneto – ha rivelato una verità invisibile ma concreta, spesso taciuta nei negozi dalle vetrine scintillanti.
Bangladesh: la tragedia sotto le cuciture
Sara ha aperto lo spettacolo con un racconto toccante sul disastro del Rana Plaza, dove nel 2013 oltre 1.500 operai tessili persero la vita nel crollo di una fabbrica. “Producono per noi – racconta – per Zara, H&M, Ralph Lauren, ma guadagnano tra gli 80 e i 100 dollari al mese. Non è vita, è sfruttamento.” In prima linea le donne, strette in ritmi disumani per garantire capi a basso costo nel mercato occidentale.
Cile e Ghana: dove finiscono i nostri vestiti buttati
Edoardo ha guidato il pubblico tra i deserti del Cile, dove tonnellate di abiti usati provenienti da Europa e Stati Uniti vengono scaricati illegalmente nel deserto di Atacama. Nessun trattamento, nessun rispetto per l’ambiente: solo falde inquinate e incendi. A seguire, Ghana: le nostre “donazioni” finiscono nei mercati e poi nelle discariche a cielo aperto, creando montagne di scarti nelle baraccopoli. “Un ciclo che ci illude di fare del bene, ma che pesa su altri popoli.”
India e Indonesia: l’origine tossica dei nostri capi
Il cotone in India, come ha spiegato la voce narrante, ha un prezzo altissimo. Non quello sul cartellino, ma quello umano: contadini indebitati per comprare pesticidi, falde avvelenate dai coloranti, e oltre 10.000 litri d’acqua per produrre un solo paio di jeans. In Indonesia, ha proseguito Sara, la deforestazione avanza per coltivare alberi a crescita rapida destinati alla cellulosa tessile. A scomparire non sono solo le foreste, ma anche le case degli indigeni, le tigri, gli oranghi.
Veneto: quando l’inquinamento è in casa nostra
Enrico ha portato lo sguardo in Italia, raccontando l’emergenza PFAS nel Veneto. Queste sostanze chimiche, usate per rendere idrorepellenti molti capi d’abbigliamento, contaminano il suolo, l’acqua e i corpi, provocando tumori e infertilità. “Nessuno ci ha avvisato. E allora ci chiediamo: ne vale davvero la pena? Possiamo vestirci con coscienza?”
Scienza, musica e alternativa: lo spettacolo della consapevolezza
Non è mancato l’approfondimento scientifico: che cos’è il fast fashion? Quali materiali usiamo? E quali alternative esistono? Il biologico, il second hand, app come Vinted e iniziative locali sono state presentate come strumenti concreti per un cambiamento possibile.
A chiudere, una sfilata baratto per dimostrare che si può essere eco e chic, e un momento musicale che ha emozionato il pubblico. Il brano, scritto e interpretato con coraggio da Elisabet Bianchi, Eda Aliraj e Sophie Danza, ha risuonato come un manifesto: Slow fashion is the right choice. Per vedere il video completo: YOUTUBE Maria Martorana.
Tra i commenti: “Mi sono emozionata”, “Bravissimi!”. Ma soprattutto, è emerso un invito: conoscere per agire. Perché la moda può anche essere un gesto politico. E le nuove generazioni sono pronte a scegliere.
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