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“What Remains”: il disco solista di Elisa Begni è un bosco narrativo in cui perdersi ascoltando se stessi (in cuffia)

Il debutto solista dell'artista del Lago Maggiore, voce dei Bluedaze, è un disco di chi si immerge nei paesaggi per uscirne diverso: otto brani, tra folk oscuro, meditazione sonora e metamorfosi

Elisa Begni

Inizia con un “nodo”, o forse uno snodo, e finisce con un ritorno dopo aver attraversato il vuoto What Remains, primo album da solista di Elisa Begni, in uscita in autunno per Kono Dischi dopo anni di scrittura e concerti in Italia e per l’Europa insieme ai Bluedaze.

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Otto brani da ascoltare senza interruzioni, per “perdersi in cuffia”. Otto brani densi dal punto di vista sonoro e al tempo stesso essenziali nei testi, arrangiati e prodotti con Francesco Sergnese, che scivolano tra il dark folk, il jazz nordeuropeo, il deep listening di Pauline Oliveros e i paesaggi sonori di Raymond Murray Schafer. Otto brani “immersivi” tra le atmosfere boschive, lungo un sentiero tracciato nel solco del «viaggio dell’eroe», con un equilibrio che si rompe, qualcosa si perde, qualcos’altro si acquisisce, qualcosa ancora che ti attraversa e ti trasforma, perché da un vero viaggio non si ritorna mai uguali a quando si è partiti.

A tenere insieme tutto è la voce, in inglese, di Begni e la sua consapevolezza che attraversare i vuoti dell’ignoto (Voids, come il brano posto in chiusura) e della paura sia il modo più sincero di “restare se stessi”, e al tempo stesso vivere una metamorfosi.

«Anche se non sono una persona competitiva, questo disco è stata una sfida con me stessa – racconta la cantante del Lago Maggiore -. Ho sempre fatto parte di gruppi – culturali, creativi musicali. L’idea di compiere un percorso da sola da una parte era qualcosa di cui sentivo il bisogno, dall’altra mi spaventava moltissimo. E così, quando ho sentito questa paura, ho pensato che fosse il momento giusto per provare a mettermi alla prova e dare sfogo a qualcosa che sento parte di me, ma che non avevo mai sperimentato fino in fondo. In realtà quando si suona da soli non lo si è davvero mai, però  è stata comunque l’occasione per conoscere meglio me stessa in un contesto diverso».

Il titolo dell’album, What Remains, è rimasto a lungo tra gli appunti di Begni: sintetizza il percorso del disco, riferendosi, appunto, a ciò che resta dopo che si cambia. Una regola aurea tipica del già citato «viaggio dell’eroe», da tenere sempre presente ad ogni misura musicale di What Remains, valida dall’alba dei tempi: dal mito eziologico di Orfeo ed Euridice, passando per le catabasi omeriche e virgiliane, passando naturalmente per la «selva oscura» per antonomasia (a proposito di atmosfere boschive), fino alle narrazioni contemporanee, come ne Il Signore degli AnelliLa Danza delle Spade, per fermarci agli esempi citati dalla stessa Begni. L’elenco d’altronde è lunghissimo perché è qualcosa di intrinseco all’essere umano.

«Per costruire questo disco mi sono ritrovata con davvero molte idee e suggestioni. Mentre componevo il disco stavo studiando meditazione e il deep listening, l’unione di musica e meditazione. Gli stimoli erano davvero tantissimi, così ho scelto di basarmi su un modello davvero antico, quello del viaggio dell’eroe, in cui il protagonista vive due volte lo status della morte, prima nel regno dei vivi e poi in quello che noi chiamiamo inferi». Come già successo in passato con i Bluedaze, anche questa volta la scrittura della cantante del Lago Maggiore ha preso forma in inglese. Non per una questione di sound, come successo a molte band alt-rock degli Novanta/Duemila (i primi Afterhours, per esempio), ma per addentrarsi ancora di più in uno stato di straniamento.

Scrivere in una lingua diversa è dunque un modo per stare dentro allo spaesamento. Un modo per non risolvere subito subito l’enigma della poesia (che senza mistero sarebbe depotenziata, ndr.). «Mi sono interrogata tanto sulla lingua – ci spiega -. L’italiano è la mia lingua, che conosco in tutti i suoi aspetti. Ho avuto la tentazione, diciamo, di scrivere in italiano e buona parte di questo disco è frutto di appunti e pensieri formulati in italiano, anche se alcuni mi sono venuti in mente direttamente in inglese. Da l’altra parte scegliere l’inglese è stato qualcosa di strutturale. Scrivere in lingua “straniera” mi ha messo in una condizione diversa. Il disco parla di cambiamento e di confusione, inevitabile quando si attraversa un cambiamento. Quando ho scritto il disco non sapevo bene chi ero e dove stavo andando. Scrivere in una lingua che non è la mia lingua madre poteva aiutarmi ancora di più a stare in una dimensione di straniamento, un alleato per vivere una condizione di ancora maggiore disorientamento. Con l’inglese ho dovuto ragionare, per forza, ragionare su tutte le parole, a volte anche ricorrere al minimalismo, andando spesso all’osso: i testi sono infatti abbastanza corti. Ad ogni modo devo ringraziare Silvia Venturini che mi ha aiutato a perfezionare il mio lavoro».

Il cuore del disco custodisce però un brano dal titolo in italiano, Strega, «la traccia più profonda, più oscura, più misteriosa». Anche la più lunga e complessa. Una parola «di grande fascino», “strega”, scelta da Begni perché «affonda le radici nella notte, nel latino “strix”, parola che indica un rapace notturno». Qui, la voce si muove nel bosco, in una scala misteriosa, tra vampiri e intuizioni. «Quando la canto mi vedo lì: in un bosco incantato. Anche nel senso oscuro del termine, senza sapere bene cosa possa succedere».

La natura, in particolare quella dei boschi notturni, è il paesaggio principale, spesso l’unico. Il lago, la notte, il vento, le montagne. «Le città sono citate solo nel brano di apertura, Knots, e sono in fiamme». Il “campionario” può richiamare quello dei grandi scrittori ossianici e del romanticismo, come nel caso del viaggio notturno dell’Enrico di Ofterdingen alla ricerca del fiore blu, o dei giardini stregati inglesi, i “garden” cantati 50 anni fa dai Genesis di Peter Gabriel nelle Nursery Cryme e ancora ri-narrati, con il linguaggio della Gen Z («’Cause children don’t know the meaning of truth»), dai Black Country, New Road, un nome da palcoscenico che neanche a farlo apposta ci riconduce sempre al cuore di What Remains. 

«La natura è un po’ il mio teatro principale – sottolinea Begni -. Nel disco sono presenti tanti riferimenti ad elementi naturali e sono strettamente connessi al nostro territorio. La natura ti stimola, e per me è una delle più grandi fonti d’ispirazione. Come la poesia, un’arte straordinaria».

 

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Ogni canzone è un punto della mappa nel percorso costruito da Begni seguendo una tracklist dettata da ritmi e dinamiche che non sono più solo musicali, ma anche cinematografico-narrative. Negli eterei synth di Trauma si sente l’eco delle Gmynopedie di Satie, nei bassi grevi e negli “strati” di Exposed si raccolgono e ripropongono, come delle gocce, le pennellate sonore di Jacopo Incani e Daniela Pes. E poi ancora la “ricerca” che si fonde a formule interrogative e arcane — note ora sospese, ora taglienti, arpeggi di chitarra ovattati, piatti di batteria carichi come nuvole grigie — come in Where are you now?, Everlasting Everchanging, Am I?: tutte in cerca di una direzione, anche quando sembra non essercene una all’interno della selva oscura, ché la diritta via era smarrita.

Si potrebbe scavare a fondo a un disco così denso e pieno di immagini. Ma forzare What Remains, prima ancora della sua uscita, alla condanna dell’esegesi sembra quasi essere più un danno che altro. Meglio restare ad ascoltare, in silenzio, magari in cuffia, lasciandosi attraversare. Prima di incamminarci proponiamo, a mo’ di epigrafe letteraria, un passaggio di Cesare Pavese, che, nel descrivere il viaggio ctonio del già citato Orfeo, restituisce e detta la via più di quanto possa fare un articolo di giornale.

S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo.

Pubblicato il 19 Giugno 2025
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