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L’imprenditorialità italiana alla prova del calo demografico

Intervista al professor Federico Visconti, rettore dell'università Liuc, sul rapporto tra la crisi demografica italiana e la capacità di creare impresa

Liuc generico

Lo storico Giuseppe Berta nel libro “L’imprenditore. Un enigma tra economia e storia” (Marsiglio Editore) scrive: «Mai come nell’ultimo scorcio del Novecento l’imprenditorialità è stata diffusamente rappresentata come forza motrice del progresso economico». Tra le condizioni che facilitano lo sviluppo dell’imprenditorialità ci sono la famiglia, dove il futuro imprenditore assorbe i valori di riferimento, fa le prime esperienze e mutua i modelli di riferimento, e la scuola che trasferisce le competenze necessarie. E ancora, la presenza di un distretto industriale espressione del genius loci e di istituzioni che stimolano e incentivano l’intrapresa economica. Tra i fattori che giocano un ruolo importante nello sviluppo dell’imprenditorialità c’è anche la demografia. Recentemente, università Liuc di Castellanza e Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) hanno organizzato un seminario multidisciplinare dedicato al tema dell’inverno demografico italiano, coordinato dal rettore Federico Visconti e dalla professoressa Eliana Minelli.

Professor Visconti, la crescente denatalità del nostro Paese avrà un impatto sull’imprenditorialità?
«La popolazione conta molto ai fini del fattore imprenditoriale. Ci sono tre evidenze non statistiche che lo dimostrano. La natalità ha dato un contributo allo sviluppo dei distretti industriali italiani. Lo sviluppo industriale del primo e secondo dopoguerra, sensibilmente determinato dalle piccole imprese e dalle economie di localizzazione, non può prescindere dalla demografia. C’è un caso emblematico che è il distretto della rubinetteria di Lumezzane in provincia di Brescia. Giancarlo Provasi in “Lumezzane terra di imprenditori” per spiegare il caso si concentra anche sulla famiglia e sulla numerosità dei suoi membri: nel 1971, il 13% delle famiglie è composto da sei o più membri. Nel 1981 la percentuale delle famiglie numerose passa al 7%. Nel 1991 le famiglie con sei o più membri sono il 3,3% a fronte del 2,1% provinciale e del 1,3 del capoluogo».

Quali erano i fattori all’interno di queste famiglie determinanti nel processo di creazione dell’impresa?
«Provasi lo spiega con chiarezza: “Le famiglie più numerose potevano contare su un piu1 alto tasso di successo adattivo, in virtù di due valori: da una parte la più elevata capacità di accumulazione originaria di capitali, avvenuta attraverso l’autosfruttamento delle risorse di lavoro familiari, dall’altra la possibilità di diversificare le fonti di reddito e di conseguenza la maggiore propensione a da assumere rischi imprenditoriali in quanto coperti dal reddito familiare complessivo”. Insomma, se si è in tanti in famiglia l’azienda cresce più facilmente. Un componente avvia la startup e qualcun altro sta sotto padrone e al momento giusto si sposta. Quindi se le famiglie numerose nel 1971 fossero state il 3% e non il 13 % credo che il fenomeno Lumezzane non sarebbe stato un fenomeno».

Quindi, per la proprietà transitiva, se l’effetto natalità ha funzionato a Lumezzane…
«Ha funzionato anche in altri distretti»

Quale altro fenomeno contribuisce a far crescere e a tener viva l’imprenditorialità?
«I flussi di imprenditorialità connessi all’immigrazione. Se analizziamo i dati del 2020 notiamo che gli imprenditori stranieri in Italia sono 740mila, più del 10% dei quali di origine cinese. Inoltre, su un totale di 5 milioni di imprese attive in Italia, quasi l’11 % è a conduzione straniera, ovvero controllate da soci nati all’estero. Più del 60% delle imprese opera nel commercio e nelle costruzioni. Alcuni analisti parlano di “effetto di sostituzione”. Un esempio è il distretto dei divani a Matera (Basilicata, ndr) che senza l’entrata in scena dei cinesi sarebbe andato incontro alla catastrofe».

Manca il terzo riferimento a cui accennava nella prima risposta
«È il capitalismo familiare»

Il capitalismo familiare, con i suoi pregi e difetti, ha dato vita a Pmi di successo che hanno reso l’Italia un grande Paese dal punto di vista industriale. Che relazione ha il family business e con la demografia?

«Il numero dei figli conta molto. La storia di queste imprese è dinastica, ha origini lontane, una tradizione e una narrazione. Avere un elevato numero di figli non garantisce una transizione generazionale di successo, ma mette sul piatto più opzioni per gestire la continuità aziendale. La ricerca sul campo ci dice che nel family business si sta affermando un principio importante: largo ai giovani meritevoli».

Burocrazia canaglia, incertezza del diritto, difficile accesso al credito, instabilità politica. L’elenco di ciò che non va in questo Paese potrebbe continuare per un’intera pagina. Nonostante ciò in Italia si è continuato a fare impresa a grandi livelli e il Made in Italy è uno dei primi brand al mondo. Il calo demografico sarà la goccia che farà traboccare il vaso?

«Nel 1960 Luigi Einaudi scriveva: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare pr molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla altrettanto potente che il guadagno”. Negli scenari del terzo millennio, la tendenza evocata da Einaudi rischia di essere invertita da “migliaia a milioni di individui” a “milioni, migliaia di individui”. Se fosse per il bene del Paese e delle future generazioni bisognerebbe arrestarla. Ce n’è per tutti non solo per quelli che continuano a molestare, inceppare e scoraggiare, ma anche per la demografia».

Con 11 milioni di italiani in meno il futuro riserverà nuove sfide

Pubblicato il 23 Maggio 2023
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